Storie di persone e di verde nel docufilm God save the green, che racconta storie di gruppi persone che, attraverso il verde urbano, hanno dato un nuovo senso alla parola comunità e allo stesso tempo hanno cambiato in meglio il tessuto sociale e urbano in cui vivono
Da una parte il bisogno (di cibo), dall’altra il desiderio (di bellezza, di contatto con la natura).
A fare da collante macroriprese di natura fatte di acqua, di germogli, di insetti, accompagnate da una voce narrante che ci ricorda che anche noi, uomini e donne che vivono tra il cemento, siamo esseri viventi fatti di materia organica.
È appunto il verde, inteso come natura, il filo conduttore che unisce le storie narrate dal docufilm Good save the green di Michele Mellara e Alessandro Rossi, girato per la Mammut Film in parte in Europa (soprattutto a Berlino, ma anche a Bologna e Torino), in parte in alcuni paesi del Sud del mondo.
C’è l’orto del bisogno e del riscatto sociale (esempio delle donne che hanno organizzato la coltivazione idroponica a Teresina in Brasile o quello delle coltivazioni nei sacchi nella bidonville di Nairobi), l’orto del piacere anche estetico (su un tetto torinese un tripudio di vegetazione), l’orto sociale di cui Berlino, città degli orti per antonomasia, va fiera.
Alla base il ritorno alla terra dell’uomo che non sarà nato agricoltore sempre, ma lì sta rincasando riscoprendo valori e opportunità legati alla produzione di alimenti sani.
L’alternanza delle immagini crea nello spettatore una sensazione di dicotomia, tanto distanti sono le coltivazioni alternative messe in atto.
Ma a ben vedere in entrambi i casi si tratta di una collezione di esempi virtuosi, di esperienze che partono dalla gente che invece di rassegnarsi, o di aspettare che qualcuno di più importante (governi, enti, o magari appunto un dio) faccia per loro quello di cui hanno bisogno o desiderano, si danno da fare per realizzarlo.
La dimostrazione vivente che si può. Qui sotto potete vedere un’anteprima delle scene girate su un tetto di Torino.