Ha ragione Ermete Realacci, presidente di Fondazione Symbola, quando fa notare che noi italiani in ambito post crisi ripartiremo in maniera differente perché c’è un nuovo modo di vivere e soprattutto di acquistare.
Più consapevole, meno consumistico e comunque più attento agli impatti sia sulla salute che sull’ambiente.
Questo vale per una bella nicchia di italiani. Quanti? Difficile calcolarlo con precisione, ma il marketing che punta sempre più a evidenziare gli aspetti bio ed ecologico dei prodotti ci conta da tempo. Ovviamente sulle teste del marketing ci sono le aziende, ovvero quelle imprese che per posizionarsi meglio sul mercato possono scegliere tra le mille certificazioni ambientali che dal 1978 a oggi si sono propagate.
Luci e ombre di questo settore le ha recentemente evidenziate il rapporto Certificare per competere firmato da Symbola con il supporto di Accredia, ente italiano di accreditamento e con il contributo di un’azienda come Cloros il cui mestiere è proprio quello di analizzare gli asset delle imprese per poi certificarle.
Luci: il nostro Paese – lo dice il rapporto – è il secondo per numero di certificati ISO 14001. Il primo per numero di certificazioni di prodotto EPD, il terzo per Ecolabel ed EMAS. E siamo il quinto paese del G20 per certificazioni forestali di catena di custodia FSC. In totale sono 24 mila le certificazioni ambientali rilasciate. Ciò è volano di sviluppo.
Le imprese delle 4A (agricoltura, arredo automazione e abbigliamento) con certificazione ambientale esportano nell’86% dei casi, mentre le non certificate nel 57%. E se le certificazioni giovano a tutte le imprese, alle aziende medio-piccole mettono il turbo: le PMI (fino a 50 addetti) con certificazione ambientale registrano uno spread di +4 punti nel fatturato (contro un +1,1 delle medie, fino a 250 addetti, e un +0,6 punti delle grandi) e di 1,2 punti negli occupati (contro lo 0,6 o 0,7 delle altri classi).
Sono un buon alleato per lavorare con la Pubblica amministrazione e a volte producono sgravi superiori al costo sostenuto per il processo di certificazione.
Ombre: troppi sono i marchi; oltre 450 nel mondo cui si affiancano e la tendenza e farne nascere di nuovi. Dispersione, disorientamento, ma anche poca comprensione per gli utenti finali. È quanto ha rilevato un sondaggio Ipsos curato per questo studio.
“Se chiediamo di indicare spontaneamente i marchi di certificazione conosciuti” fa notare Nando Pagnoncelli, presidente di Ipsos Italia “sa dare una risposta il 39% degli intervistati. E tra questi meno della metà, ossia il 15% degli italiani, indica nomi di certificazioni ambientali esistenti”.
Segno che la strada verso una corretta e ampia conoscenza di queste certificazioni e di tutti i vantaggi che portano è ancora lunga.
Suggerimento? Semplificare il comparto potrebbe portare enormi vantaggi anche per quanto riguarda la formazione stessa dei certificatori che si destreggiano tra i protocolli e i preliminari.
E così i dati a oggi registrati potrebbero crescere ulteriormente visto che in piena crisi – italiana tra il 2009 e il 2013 – le imprese delle 4A amiche dell’ambiente hanno visto i loro fatturati aumentare, mediamente, del 3,5%, quelle non certificate del 2%: le certificazioni ambientali portano in dote, cioè, uno spread positivo di 1,5 punti percentuali. Ancora meglio nell’occupazione, dove lo spread arriva a 3,8 punti percentuali: le aziende certificate hanno visto crescere gli addetti del 4%, le altre dello 0,2%.