L’emergenza Coronavirus sta cambiando molte delle nostre sicurezze ma anche delle nostre abitudini di acquisto: tra queste c’è anche la crescente esigenza di vendere prodotti alimentari – anche freschi – in confezioni plastiche, sottovuoto o comunque protette dagli agenti esterni
Ebbene siamo ormai vicini alla scandinavizzazione del nostro modo di vivere; nell’era post Covid non viene risparmiato neppure il rituale della spesa al reparto ortofrutta: tutto insacchettato, asettico, privo di profumi bloccati dalle plastiche che avvolgono i prodotti.
Al carrello della spesa, già carico di imballaggi monouso, si aggiungono di questi tempi anche i cibi da asporto di bar e ristoranti; la plastica domina la nostra vita: è un dato di fatto.
Dovevamo però tornare allo sfuso, si diceva poco prima della pandemia, se non ricordiamo male.
Il faro della nuova distribuzione organizzata sembra dunque la Scandinavia, dove già nel 2018, nei supermercati di Copenhagen o Stoccolma potevi comprare una sola mela avvolta in un sacchetto di plastica trasparente.
Oggi – ci ha confermato un esperto della cooperazione industriale agroalimentare – la richiesta dei supermercati italiani è passata in breve tempo da una sacchetto con 8 mele, a una confezione con 4 mele e, più recentemente, a una confezione con sole 2 mele.
Chi sperava non accadesse si deve arrendere alla evidenza.
Forse è anche una conseguenza del fatto che, nelle città, le famiglie numerose sono sempre meno e i single sempre di più? Così vendere loro 8 mele comporta, probabilmente, un maggior rischio di farle marcire prima che possano essere addentate.
A questo proposito la EU ci ricorda che lo spreco alimentare in un anno nei paesi dell’unione è stato di 88 miliardi di kg, di cui il 60% proviene dalle famiglie (leggi il rapporto).
Gli imballaggi di cui sono pieni gli scaffali nei supermercati avrebbero proprio lo scopo primario di ridurre il rischio questo spreco… almeno nel tragitto dalla produzione al frigorifero del consumatore.
Da li in poi però, una volta aperti gli imballaggi, avviene di fatto lo spreco: molte confezioni monouso – per esempio le vaschette degli affettati o dei formaggi molli – non sono più richiudibili, mentre i frigoriferi sono progettati per conservare con il freddo, catturando l’umidità dei cibi, ovvero seccandoli troppo in fretta, una volta aperte le confezioni.
Ma una volta a casa del consumatore la gestione della confezione aperta non è più nella responsabilità di chi l’ha progettata e commercializzata e questo giustifica, a norma di legge, la scelta del produttore del confezionato di optare per confezioni semplici e a basso costo.
In moti casi, lo sappiamo bene tutti, gli imballaggi sono solo una vetrina delle vanità: colori e grafica accattivanti con informazioni spesso insufficienti per una scelta veramente consapevole.
Nel caso qui documentato, per l’acquisto di 2 mazzetti di asparagi in un grande supermercato, abbiamo contato:
- 1 film estensibile (base polietilene) che trattiene i 2 mazzetti
- 1 vaschetta in carta con il lato interno a contatto con il cibo spalmato con materiale plastico (manca un certificato di biodegradabilità o compostabilità anche se sul contenitore c’è scritto buttare nella carta)
- 1 etichetta in carta inchiostrata
- 2 pezzi di film plastico, che avvolgono i gambi, in polipropilene
- 4 elastici in gomma sintetica che stringono i 2 mazzetti
Un totale di 5 materiali, non compatibili tra loro. Se a questi si aggiungono i guanti che il supermercato fornisce e lo shopper in bioplastica, per comprare un chilo di asparagi si sprecano 6 materiali che andranno gettati in 3 contenitori diversi: carta (forse), plastica, organico (incluso bioplastica compostabile).
È vero che in termini di valorizzazione del fine vita degli rifiuti, l’Italia brilla per virtuosismo, rispetto ad altri Paesi EU: noi ci impegniamo a differenziare gli imballaggi mentre nei Paesi Scandinavi i rifiuti vengono bruciati, tutti, con la scusa del recupero energetico.
Uno scarto è tecnicamente sempre un’inefficienza di sistema, comunque la si metta; e noi tutti – ce lo dicono i fatti misurati dalla scienza – scartiamo troppo e male.
Da noi inoltre aggiunge problema a problema la burocrazia, se è vero che negli oltre 8.000 comuni italiani vigono ordinanze potenzialmente differenti; così che se vai in vacanza in un’altra regione, devi chiedere spiegazioni alla locale amministrazione per sapere dove e quando gettare i rifiuti.
Questo virtuosismo italiano, con la scandinavizzazione del reparto dell’ortofrutta, viene messo a ulteriore dura prova: al momento dell’acquisto, l’imballaggio da un lato impedisce la contaminazione da virus, ma elimina anche la ritualità romantica a cui eravamo abituati nel selezionarci il prodotto su misura.
Al consumatore resta in taluni casi solo il molto meno romantico gesto della pesatura e dell’etichettatura, ma durerà per poco anche questo. Sistema pratico forse, ma triste gesto nell’era digitale.
Per il supermercato l’emergenza venuta dal Covid-19 è quindi una valida giustificazione anche dal punto di vista economico: posizionare sugli scaffali la mercanzia pre-imballata è più rapido, scaricarla dai pallet anche; inoltre riduce il rischio che nel travaso un frutto cada in terra e quindi debba essere risanificato o gettato.
Quello che non sarebbe logico è che in alcuni casi la merce imballata costi meno di quella sfusa. In questa foto scattata qualche giorno fa: gli asparagi sfusi a sinistra nella foto, costavano 1€ in più al kg rispetto a quelli confezionati più a destra: 3,96 €/kg l’imballato e 4,96 al kg quelli sfusi. Può essere un errore ma significativo.
Se la domanda che si fa il cittadino consapevole è se ha un senso tutto questo spreco di materiali – a cui dovrebbe rispondere la politica – la domanda che si fa il giornalista invece è: ma l’imballaggio degli asparagi non poteva essere solo fatto con un paio materiali?
Etichette e film infatti possono essere realizzate in un solo materiale plastico, cosi come la vaschetta in espanso, come nel caso si fosse utilizzato il polipropilene, agevolando così anche la rigenerazione della stessa, anziché moltiplicare i problemi del cosiddetto plast-mix che nessuno poi vuole gestire.
Oppure poteva essere realizzato in bioplastica che è anche biodegradabile e compostabile e avremmo avuto un solo materiale da gestire e da rigenerare.
Sarà un fatto di ignoranza o più semplicemente di opportunità? Certamente l’evidenza è che non c’è una norma che impedisca di avere un imballaggio multimateriale, come per gli asparagi e che molto probabilmente non finirà comunque rigenerato, se non probabilmente andrà disperso, come dicono le statistiche mondiali.
E l’altra verità è che l’imballaggio alimentare – fondamentale per ridurre gli sprechi alimentari – si conferma in genere la cenerentola del costo industriale; basta funzioni e costi poco, quando invece, come in questo caso, è anche un moltiplicatore di problemi per chi sta in fondo alla catena del ciclo vitale dei materiali.
Una norma se c’è, è confusa mentre il tempo per i fornitori di frutta e verdura è sempre tiranno, stretti nella morsa dei commercianti che vogliono tutto e subito e a cui non interessa un impegno verso l’eco-design.
Non importa infine se il povero cliente eco-sensibile – che paga lo smaltimento – avrebbe almeno avuto meno da impazzire su dove si butta cosa e avrebbe soprattutto gustato meglio il suo asparago.
Non si pretende di tornare a privilegiare un rapporto diretto con il fruttivendolo del mercato rionale, che resta comunque prima di tutto un amico del consumatore, se non un orafo del profumo e del sapore nelle botteghe gourmet.
Certamente però è necessario puntare alla diminuzione delle tipologie di imballaggi presenti nell’agroindustria e immessi negli scaffali dei supermercati. Questo tecnicamente si può e si dovrebbe fare, almeno per buonsenso.
L’esempio della confezione di asparagi è un caso grottesco ma è soprattutto un altro specchio della mancanza di attenzione per questo Pianeta.