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Il mondo non ha futuro senza open innovation ed economia circolare

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Senza innovazione, il mondo non ha futuro, parola di Enrico Giovannini, economista e statistico, portavoce dell’ASviS. E oggi, fare innovazione significa soprattutto investire in azioni di economia circolare e in open innovation

Oggi, infatti, è indispensabile ripensare il ciclo economico: un sistema pensato per potersi rigenerare, fondato sulla valorizzazione degli scarti, con un’estensione del ciclo di vita dei prodotti, la condivisione delle risorse, l’impiego di materie prime da riciclo e di energia da fonti rinnovabili.

Insomma economia circolare che richiede una trasformazione radicale, che non può gravare sulle spalle delle singole imprese.

Servono sostegno a livello economico e finanziario e capacità di applicare il concetto della open innovation anche alla circular economy: è necessario, cioè fare in modo che le imprese che hanno bisogno di rinnovarsi in un’ottica di economia circolare possano entrare in contatto con delle realtà in grado di fornire loro gli strumenti per farlo.

Non si può attendere oltre… Secondo un recente rapporto, l’Italia tornerà al Pil ante Covid soltanto nel 2027. Come potremo, allora, assorbire la disoccupazione e la povertà che la pandemia sta creando se non innoviamo profondamente il nostro modo di essere?

E lo European Green Deal è l’unica strategia di crescita economica sostenibile, tanto che per Giovannini “Oggi si sta pensando di creare degli hub di co-working nelle città, per incontrarsi a gruppi e non necessariamente tutti insieme. Questo rivoluzionerà le nostre vite, avremo una diversa mobilità pubblica. E molto tempo a disposizione. Come lo riempiremo? Si apre uno spazio straordinario sia dal punto di vista sociale che economico. Abbiamo spazio per disegnare politiche adatte a una nuova generazione di imprenditori che saranno più attenti e rispettosi delle regole”.

Una sfida che nelle regioni del Mezzogiorno è più forte rispetto al centro-nord. “Non vogliamo più sentir parlare di come spendere i soldi, ma di come far funzionare il sistema di governance nei prossimi decenni, facendolo ruotare intorno agli obiettivi di sviluppo sostenibile. In questo senso, sarà fondamentale anche il ruolo delle Regioni” conclude Giovannini.

Green economy, Italia al top ma rischia di perdere il vantaggio

Per Riccardo Porro, chief operations officer di Cariplo Factory, “l’economia circolare ha la capacità di creare filiere multidisciplinari integrate nelle aree locali e di restituire, sempre localmente, risorse ambientali, creando utile nel processo. Caratteristiche che la rendono uno dei pilastri del Green New Deal“.

L’Italia è posizionata al primo posto in Europa nella green economy, come evidenzia il primo Rapporto nazionale 2019 sul modello dell’economia circolare realizzato dal Circulary Economy Network (103 punti contro i 90 del Regno Unito, gli 88 della Germania, gli 87 della Francia e gli 81 della Spagna).

Questa posizione, in un mercato che in Italia vale circa 345 miliardi di euro e due milioni di occupati – dati del rapporto La bioeconomia in Europa, della Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo, in collaborazione con Assobiotec e il Cluster Spring – ci posiziona come economia verde al terzo posto in Europa alle spalle di Germania (414 miliardi) e Francia (359 miliardi).

Burocrazia, una minaccia alla circolarità

Questa eccellenza italiana però non deve farci riposare sugli allori; anzi la possibilità di retrocedere e perdere posizioni è molto alta, soprattutto a causa della complessità del nostro apparato normativo.

Continua Porro: “dopo anni di discussioni, ancora oggi tutto il tema dei rifiuti viene trattato secondo specifiche normative su base regionale o comunale, quando invece l’obiettivo finale sarebbe quello di far scomparire le discariche per trasformare gli scarti in materie prime seconde. Motivo per cui abbiamo bisogno di un disciplinare chiaro che tratti i rifiuti come un bene produttivo“.

La mancanza di una normativa centralizzata genera inevitabilmente grovigli burocratici che allungano i tempi e spesso finiscono per dissuadere le imprese dall’intraprendere la strada della circolarità.

Un caso emblematico – ricorda Porro – è quello di Fater, azienda che produce assorbenti per la persona, che, per riuscire a recuperare pannolini e assorbenti usati, con l’obiettivo di rimettere la cellulosa nel ciclo produttivo, ha investito milioni di euro in tecnologia. Ma ha poi ha dovuto aspettare quasi 7 anni per il via libera amministrativo.

Serve quindi sostegno da parte delle istituzioni per un rilancio dell’economia basato su un modello circolare: norme chiare, meno burocrazia e soprattutto un piano di incentivi – non solo da parte dello Stato, ma anche con il sostegno del comparto creditizio.

Investire in open innovation

Per Porro le risorse economiche andrebbero poi catalizzate per avviare progetti di innovazione di largo respiro, attivando i capi filiera delle principali industrie italiane.

Solo così si può pensare di riuscire a trasformare un intero ecosistema verso un modello virtuoso di recupero di materiali, in grado di creare occupazione e di sostenere la ripresa economica.

Questo richiede investimenti in innovazione; tuttavia, sebbene le aziende abbiano compreso che non si tratta di costi, ma di investimenti, mancano tuttora le competenze per governare questo cambiamento.

Per questo la chiave di volta è l’open innovation, che porta internamente la forza e la creatività di idee esterne, anche sviluppate da startup innovative. E questa apertura è fondamentale anche per l’economia circolare, perché nessuno è in grado di affrontare da solo la complessità dei temi e delle frontiere che portano cambiamenti di questa portata.

Il tema della gestione dei rifiuti è centrale

Si stanno discutendo in questi giorni le norme conosciute come pacchetto economia circolare – entrate in vigore il 4 luglio 2018 e da recepire dagli Stati membri dovranno recepirle entro il 5 luglio 2020 – che modificano 6 precedenti direttive su rifiuti (2008/98/Ce), imballaggi (1994/62/Ce), discariche (1999/31/Ce), rifiuti elettrici ed elettronici (2012/19/Ue), veicoli fuori uso (2000/53/Ce) e pile (2006/66/Ce).

Le norme della direttiva europea 2018/851, in esame alle Commissioni Ambiente di Camera e Senato, puntano a migliorare l’ambiente – con una riduzione media annua delle emissioni di 617 milioni di tonnellate di CO2 equivalente – ad avere un impatto positivo sull’occupazione – almeno 500 mila posti di lavoro in più.

Gli obiettivi delle nuove direttive prevedono:

  • il riciclo entro il 2025 per almeno il 55% dei rifiuti urbani (60% entro il 2030 e 65% entro il 2035) e si vincola lo smaltimento in discarica (fino a un massimo del 10% entro il 2035)
  • il 65% degli imballaggi dovrà essere riciclato entro il 2025 e il 70% entro il 2030
  • i rifiuti tessili e i rifiuti pericolosi delle famiglie (vernici, pesticidi, oli e solventi) dovranno essere raccolti separatamente dal 2025
  • a partire dal 2025, i rifiuti biodegradabili dovranno essere obbligatoriamente raccolti separatamente o riciclati a casa attraverso il compostaggio
  • il pacchetto Ue limita la quota di rifiuti urbani da smaltire a un massimo del 10% entro il 2035

Queste modifiche del pacchetto economia circolare hanno messo in allarme Unirima – associazione nazionale che rappresenta le imprese del comparto della raccolta, recupero, riciclo e commercio della carta – per la quale le nuove norme europee “costringeranno alla chiusura migliaia di imprese del settore del recupero e riciclo“.

Il punto che ha fatto scattare l’allarme è quello che “trasforma i rifiuti speciali recuperabili prodotti da attività commerciali, industriali e artigianali in rifiuti urbani“.

Per Unirima, se approvata nella forma attuale, la cancellazione di questa distinzione “provocherebbe un impatto devastante sull’intero settore. In un solo colpo verrebbe cancellato il comparto delle imprese dell’economia circolare poiché 30 milioni di tonnellate di rifiuti speciali diventerebbero urbani e pertanto dovrebbero essere gestiti dai Comuni sottraendoli al mercato del riciclo, con gravissime ripercussioni in termini di efficienza e competitività“.

Inoltre ci sarebbero serie conseguenze sulla tracciabilità dei rifiuti speciali perché la trasformazione dei rifiuti prodotti dalle attività commerciali, industriali e artigianali in rifiuti urbani, non consentirebbe più il monitoraggio che avviene oggi tramite i documenti di trasporto (formulari di identificazione rifiuti).

Non solo critiche ma anche proposte concrete per l’economia circolare

Unirima, Assofermet e Assorimap, che rappresentano le imprese del settore della produzione di Materia Prima Secondaria, End of Waste (EoW) di carta, metalli e plastica, hanno firmato un protocollo di intesa e lanciato il primo manifesto delle associazioni del riciclo a sostegno dell’economia circolare.

Si tratta di un appello alle istituzioni per supportare le aziende nella sfida della green economy per la quale il settore del riciclo gioca un ruolo decisivo – settore che conta circa 45.000 addetti e 4.000 impianti su tutto il territorio nazionale con un fatturato di oltre 20 miliardi di euro.

Nel manifesto vengono richiesti interventi normativi per creare le condizioni strutturali che permettano la concreta attuazione dei principi dell’economia circolare, fra tutti, la semplificazione del quadro normativo e amministrativo, sia a livello nazionale che regionale, maggiori investimenti nell’innovazione tecnologica e per il trattamento degli scarti di lavorazione non riciclabili.

Direzione seguita anche dal memorandum-avviso comune, elaborato congiuntamente da Utilitalia, Fise Assoambiente, Confindustria Cisambiente, Legacoop produzione e servizi, Agci servizi, Confcooperative lavoro e servizi, dalle organizzazioni sindacali Fp Cgil, Fit-Cisl, Uil Trasporti e Fiadel che invitano Governo e Parlamento ad affrontare le attuali criticità del sistema di raccolta, trattamento e valorizzazione dei rifiuti per restare in linea con i nuovi obiettivi proposti dalle quattro direttive europee sull’economia circolare.

La richiesta è per una nuova legge per i rifiuti che acceleri il passaggio alla circular economy, spingendo da un lato l’innovazione e consolidando il sistema industriale e dall’altro riuscendo a recuperare gli squilibri di gestione in alcune zone del Paese, in particolare colmare il divario tra Nord e Sud.

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