Dove, come e perché è possibile organizzare una comunità che produca energia. Ne parliamo con Sara Capuzzo, presidente di ènostra e Fabio Zanellini, responsabile Sviluppo Servizi di Rete per Falck Renewables – Next Solutions
Entro il 2030 oltre il 70% dell’energia elettrica deve essere prodotto da fonti rinnovabili. Lo decreta il recente Piano nazionale per la ripresa e la resilienza.
A questo obiettivo, sono in molti a crederlo, contribuiranno fortemente le comunità energetiche che mirano alla produzione e consumo dell’energia a partire dal basso.
Chiamiamola energia democratica, o cooperativa. O ancora energia fatta in casa per la comunità: fatto sta che il settore fa scintille per promuovere modelli innovativi e replicabili di gestione delle comunità energetiche attraverso strumenti hi-tech, nuove collaborazioni con enti locali e istituzioni sul territorio nazionale e la creazione di un tavolo di confronto sul tema.
Se ne parlerà anche il prossimo 19 maggio nel webinar Sviluppo e futuro delle Comunità Energetiche in Italia, organizzato dal dipartimento Enea di Tecnologie energetiche e fonti rinnovabili per approfondire le opportunità in questo settore attraverso un tavolo di confronto permanente tra mondo della ricerca, istituzioni, municipalità, aziende e associazioni di categoria, anche a seguito della normativa sulle comunità energetiche introdotta a settembre scorso.
Il parere di ènostra e Falk Renewables – Next Solutions sulle comunità energetiche
Nel frattempo, GreenPlanner.it ha raggiunto due esperti e dato loro la parola per entrare in tutti i dettagli aperti su questo tema. Che sono molti e non banali.
Sara Capuzzo, presidente di ènostra, utility che si definisce una cooperativa energetica che produce e fornisce energia rinnovabile e Fabio Zanellini, responsabile Sviluppo Servizi di Rete per Falck Renewables – Next Solutions si alternano qui nel rispondere alle domande della redazione.
Possiamo immaginare che le Renewable Energy Communities possano nascere facilmente e in sincronia con il Piano nazionale per la ripresa e la resilienza? Se sì su quale base e in quali contesti si svilupperanno più facilmente: piccoli comuni, aree interne, borghi?
L’opinione di Sara Capuzzo, ènostra
Prima di rispondere è doverosa una breve premessa, che aiuta a inquadrare il potenziale delle Comunità Energetiche Rinnovabili (Cer). In base all’articolo 42bis del decreto-legge 162/19 – che recepisce anticipatamente gli artt. 21 e 22 della Direttiva Rinnovabili – la Cer è un soggetto giuridico non a finalità lucrativa che mira ad aggregare famiglie, Pmi (a esclusione delle imprese coinvolte nella filiera energetica) e autorità locali (inclusi i Comuni) intorno all’obiettivo di produrre, stoccare e scambiare energia da fonte rinnovabile all’interno della Comunità, nonché di vendere energia al Gse o a soggetti terzi.
È basato sulla partecipazione aperta e volontaria, è autonomo ed effettivamente controllato da azionisti o membri situati nelle vicinanze degli impianti la cui energia è nella disponibilità della comunità.
L’obiettivo principale delle Cer è fornire benefici ambientali, economici o sociali a livello di comunità ai suoi azionisti o membri o alle aree locali in cui opera, piuttosto che profitti finanziari.
Secondo ènostra, se ben concepita, con l’attivazione di una Cer è possibile:
- sensibilizzare i membri della comunità rispetto all’uso razionale dell’energia ai fini di massimizzare il risparmio energetico
- ridurre la spesa energetica delle famiglie, con particolare attenzione ai consumatori vulnerabili, in un’ottica di mitigazione della povertà energetica
- costruire relazioni reciprocamente vantaggiose tra gli stakeholder (Comune, famiglie, comunità, portatori d’interesse locali)
- esplorare modelli imprenditoriali innovativi di coinvolgimento dei territori
- favorire l’economia locale e formare risorse locali in tema di gestione energetica allo scopo di creare opportunità di lavoro
- innescare azioni collettive a partire da temi quali sostenibilità e beni comuni per rivitalizzare comunità locale e favorire inclusione
Dunque, i veri protagonisti della transizione energetica sono proprio i territori, con i loro bisogni e le loro specificità. In particolare, nell’esperienza maturata fin qui con i primi casi pilota, i piccoli comuni delle aree interne, che soffrono in generale di un più difficile accesso a opportunità e servizi, sono più motivati e recettivi rispetto a quanto riscontrabile in contesti urbani.
In qualità di promotori e garanti del processo, gli amministratori dei piccoli borghi, siano essi montani o rurali, risultano capaci di intercettare agevolmente l’interesse e la fiducia da parte dei cittadini – che spesso raggiungono personalmente, tramite le bacheche social, la chat whatsapp, la telefonata o la chiacchiera sotto casa – e di tutelarne i diritti, in modo efficace e concreto.
Gli ultimi tre obiettivi sopra riportati, in particolare, sottolineano il fatto che il tema energia può essere inteso come un primo pretesto per aggregare (o rinsaldare) le comunità, ponendosi di determinare ulteriori impatti economici e sociali di carattere trasversale e di interesse collettivo.
La costituzione di un ente del terzo settore (Ets) tra Comune e concittadini che partecipano alla comunità energetica suggella, in un percorso partecipato di rigenerazione, un sodalizio destinato a durare nel tempo (almeno 20 anni se coincide con la durata di erogazione degli incentivi) che può contribuire, come detto, alla creazione di opportunità di lavoro o l’attivazione di processi inclusivi che favoriscano l’interazione oltre le generazioni, le estrazioni sociali, le culture o i generi.
Un’evoluzione che, se inserita in un quadro di politiche coerenti, può contribuire al rilancio del territorio e a mitigare il fenomeno dello spopolamento.
Con questo focus ènostra affianca i Comuni lungo tutto l’iter di costituzione della Cer, fornendo supporto ai tecnici e formando la comunità in tema di energia (normativa, gestione impianti, gestione Cer, educazione al risparmio energetico) in modo che, già nel breve, possano divenire autonomi nella conduzione della Cer e nel massimizzare i benefici dati dall’autoconsumo.
Parallelamente, grazie al dialogo e al percorso di partecipazione con i cittadini, è possibile adottare specifici meccanismi di solidarietà a favore dei soggetti più deboli e combattere la povertà energetica.
Ora è ancora presto per portare dati, ma nel giro di qualche mese contiamo di poter fornire risultati che attestino il progressivo raggiungimento di questi traguardi.
L’opinione di Fabio Zanellini, Falk Renewables – Next Solutions
Sicuramente le nuove forme di condivisione dell’energia consentono di rendere disponibile in maniera tecnicamente efficiente ed economicamente efficace l’energia elettrica all’interno di un contesto limitato e definito quali possono essere le comunità rurali e i borghi, già usufruendo della normativa vigente che costituisce un recepimento anticipato della direttiva Red II sulle fonti rinnovabili.
Le basi sono quelle dell’aggregazione autonoma da parte dei cittadini o dei membri del borgo e della comunità, che si devono costituire in una forma giuridica di comunità energetica. Installando uno o più impianti di produzione da fonti rinnovabili – anche integrati da sistemi di accumulo – possono soddisfare in maniera autonoma e sostenibile il consumo elettrico e abilitare il nuovo consumo, rendendo quindi il vettore elettrico un elemento di rinascita delle attività, della vita nel borgo e della comunità stessa.
Dal momento che le tematiche tecniche, normative e regolatorie, che presiedono queste forme di condivisione dell’energia, non sono propriamente alla portata di tutti, è auspicabile che gli operatori storici che fanno della gestione, della produzione, dell’utilizzo e dell’accumulo dell’energia elettrica la loro attività principale, possano dare una mano a supportare le comunità ad avviare questi procedimenti.
Procedimenti che poi rimangono di totale proprietà e beneficio della comunità stessa.
Quali rinnovabili meglio si adattano a questi luoghi e in generale alle Cer?
Zanellini: esiste una fonte che in generale è molto adatta alle configurazioni diffuse e disperse, grazie alla sua flessibilità, alla facilità di installazione e di utilizzo: il fotovoltaico.
La possibilità di condividere energia, purché da fonte rinnovabile, è aperta però a varie tecnologie. Nei contesti di cui parliamo, per esempio, l’idroelettrica è una fonte interessante, così come la micro-cogenerazione, anche perché alla comunità è richiesta una valenza non tanto – e non solo – elettrica, ma anche energetica, per soddisfarne i fabbisogni.
Oggi la disciplina guarda solamente a impianti di nuova realizzazione, cioè quelli entrati in servizio dal 1° marzo 2020, fino a 60 giorni oltre la data di recepimento definitivo della direttiva.
Sono comunque in corso una serie di riflessioni per capire se anche gli impianti, in parte o totalmente rinnovati o esistenti, possano essere ammessi a queste nuove configurazioni di energia condivisa.
Capuzzo: rispettato il limite attuale, che consente una potenza massima di 200 kWp per il singolo impianto, allacciato in bassa tensione, è previsto che le Cer producano energia dalle diverse tecnologie rinnovabili.
Nel valutare le soluzioni migliori è importante considerare la vocazione del territorio, le condizioni meteo, la latitudine, la complessità e i tempi previsti dall’iter realizzativo dell’impianto in questione.
A titolo di esempio, in una stretta e ombreggiata valle fluviale, situata nel nord Italia, potrebbe risultare più vantaggioso considerare una minicentrale idroelettrica o a biomassa, piuttosto che un impianto fotovoltaico.
Ciò detto, in virtù dei più rapidi tempi di realizzazione, la maggior parte delle esperienze pilota attualmente in corso punta sulla tecnologia fotovoltaica.
Una volta recepito il testo integrale della Direttiva, previsto entro giugno 2021, si apriranno probabilmente nuove interessanti opportunità a oggi precluse (per taglia dell’impianto o per estensione del territorio interessato) e potranno prendere forma progetti che spaziano nelle diverse tecnologie.
Che tipo di organizzazione di cittadini è prevedibile si inneschi e come possono si organizzare per ottenere permessi, via libera ed energia?
Capuzzo: in base alle caratteristiche del soggetto giuridico stabilite dall’art. 42 bis del Milleproroghe, in particolar modo al suo obiettivo di fornire benefici sociali, ambientali o economici invece di profitti finanziari, la forma giuridica più indicata per una comunità energetica rinnovabile è quella di ente del terzo settore (Ets), in particolare l’associazione non riconosciuta, che meglio si adatta a un contesto molto circoscritto (rispetto, per esempio, a una cooperativa) e al caso in cui gli Enti Locali siano coinvolti.
Tale forma ha infatti il vantaggio di permettere a tutte le persone giuridiche di aderire (ivi compreso il comune) e comporta adempimenti e costi gestionali annuali più bassi rispetto a quelli di una cooperativa.
Oltre alla redazione dello statuto, la comunità energetica rinnovabile dovrà avere un regolamento attuativo, cioè un accordo fra i membri della Cer atto a stabilire le modalità di iscrizione, di accesso al servizio di valorizzazione e incentivazione da parte di Gse e le modalità di ripartizione dei ricavi tra i membri.
In generale, sulla base del recentissimo Decreto 72/2021 del Ministero del Lavoro, che stabilisce le linee guida per i rapporti tra le Pa e gli Ets, la relazione tra Cer e Comune sarà disciplinata da specifiche convenzioni.
Zanellini: le forme di organizzazione che oggi la normativa prevede sono quelle del cosiddetto terzo settore, quindi forme di aggregazione.
Per quanto riguarda le comunità energetiche, di natura giuridica. All’auto-consumatore collettivo, invece, non è richiesta la formazione di un soggetto giuridico, ma è sufficiente l’entità giuridica già oggi individuata dalla normativa e dal Codice Civile, per quanto riguarda il condominio o l’edificio.
In questo caso, la legislazione sembra concorde nell’indicare la proprietà come elemento discriminante, quindi l’unico proprietario.
Parliamo di forme giuridiche che incarnano l’idea di condivisione dell’energia, che significa diffondere i benefici del vettore elettrico piuttosto che realizzare iniziative speculative o finanziarie.
Quali ostacoli ancora da superare?
Zanellini: gli ostacoli sono ancora molti proprio perché il concetto di energia condivisa è agli albori. In Italia, ma anche in altri Paesi, si è perfezionato dal punto di vista normativo-regolatorio il concetto di autoconsumo.
Qui, però, si parla di energia condivisa, che è un concetto diverso e che fa parte di un quadro normativo che ancora lungi dalla perfezione.
Gli ostacoli riguardano, per esempio, il concetto di prossimità, che oggi è limitato alla rete di bassa tensione derivata dalla stessa cabina secondaria.
Ovviamente per un borgo o per una comunità limitata potrebbe non essere un concetto limitante, ma basta salire di poco con i numeri per scoprire come in realtà questo sia un vincolo piuttosto pesante.
Un vincolo che si potrebbe rimuovere molto facilmente con il recepimento definitivo. Un’altra sfida è legata al coinvolgimento di soggetti industrialmente abituati a gestire l’energia elettrica e che possono costituire un volano per la costituzione di queste realtà, che hanno una gestione locale.
Poi c’è il discorso legato alla possibilità, per queste forme di aggregazione e condivisione dell’energia, di partecipare, oltre che ai mercati dell’energia, anche a quelli dei servizi, in una forma più apprezzata e più premiata rispetto a quella che è la situazione attuale.
La stessa interlocuzione con i soggetti istituzionali che sono stati individuati come responsabili della certificazione della comunità, quindi il Pse e i distributori, è agli inizi e va notevolmente snellita.
Allo stesso modo, la compatibilità di queste forme di condivisione e dei relativi incentivi con le altre forme di incentivazioni e di supporto – anche quelle più recenti come il Superbonus – rappresenta un dedalo normativo estremamente intricato e complesso che in molti casi scoraggia o allontana i soggetti dall’intraprendere queste iniziative.
Complessivamente, la speranza è che queste ultime criticità – che sono attualmente in discussione e su cui si sta lavorando – vengano risolte, perché stiamo parlando di una forma di sviluppo coordinato della generazione sui consumi.
La condivisione dell’energia rappresenta un modo di ragionare che mette insieme consumo e produzione sostenibile, sfruttando i più avanzati elementi tecnologici: dalla generazione diffusa, alle piattaforme di misura e al metering, dalla gestione dell’energia, ai sistemi di accumulo.
Tutti elementi su cui Falck Renewables ha investito e crede fortemente. Ci stiamo interessando per costituire le prime comunità e i primi auto-consumatori che agiscano collettivamente. Il tema è centrale per la transizione energetica, così come per il nostro lavoro.
Capuzzo: uno dei principali ostacoli che rallenta e talvolta preclude la realizzazione di una Cer è la difficoltà di accesso alle informazioni relative alle utenze sottese alle cabine secondarie di trasformazione Mt/Bt, che in base alla legge vigente rappresentano il confine della Cer.
I titolari di tali informazioni sono i distributori locali, che per ragioni varie (motivi di sicurezza, tutela della privacy, difficoltà di estrazione dei dati) sono decisamente restii a condividere i dati, anche minimi, necessari per avviare con cittadini e imprese i percorsi di attivazione propedeutici alla costituzione di una Cer.
Un secondo elemento critico, che nuovamente vede coinvolti i distributori locali, riguarda l’accesso ai dati di consumo quartorari dei membri delle comunità energetiche.
In assenza di tali dati il Gse, per calcolare l’energia autoconsumata cui riconoscere i benefici economici stabiliti, dovrà utilizzare profili di consumo standard, con ciò vanificando gli sforzi che i membri possono avere fatto per cambiare il comportamento al fine di ottimizzare l’autoconsumo (per esempio spostando i consumi in fascia diurna, sostituendo la caldaia a gas con la pompa di calore o caricando l’auto elettrica di giorno).
Un ultimo fattore limitante importante è proprio il limite della cabina secondaria, che costringe anche piccolissimi borghi a far nascere più soggetti giuridici frammentando di fatto la comunità.
L’auspicio più diffuso, non solo tra gli operatori, è che con il recepimento definitivo della Direttiva, l’area della singola Cer sia estesa alla cabina primaria di trasformazione.
Un’evoluzione che amplificherebbe gli impatti locali delle iniziative e che consentirebbe di far nascere soggetti cooperativi (anziché tante piccole associazioni) o di inglobare la Cer in seno alle cooperative di comunità che già operano con successo, soprattutto nelle aree interne.