Uno spettacolo – Furore – da non perdere per la sua forza espressiva e la sua bellezza, che rievoca le fatiche e la disperazione dei contadini dell’America degli anni 20, alle prese con crisi economica e problemi climatici
Sono – dopotutto – migranti climatici quelli che Massimo Popolizio porta in scena con Furore (al teatro Strehler di Milano fino al 20 giugno).
Non li chiamavano ancora così nel 1929, ma gli elementi ci sono tutti: come la tempesta di sabbia che inaridisce le terre che si è costretti ad abbandonare.
Solo che qui il popolo in carovana, che cerca un’altra terra promessa, è quello americano che si incanale sulla Road 66 e si muove verso la California. I cui abitanti, ovviamente, fanno fatica ad accogliere questa massa di gente. Anche se appartiene a loro “stesso sangue”.
Furore nasce dalle cronache di allora. Vivide fino allo sconforto. Nell’estate del 1936, il San Francisco News chiese a John Steinbeck di indagare sulle condizioni di vita dei braccianti, sospinti in California dalle regioni centrali degli Stati Uniti.
Oklahoma e Arkansas erano diventati deserti non più coltivabili dai mezzadri. Il risultato di quell’indagine fu una serie di articoli da cui l’autore statunitense generò, tre anni dopo, nel 1939, la piece teatrale messa in scena da Popolizio.
Le maxi foto di repertorio scelte per la scenografia sottolineano il taglio giornalistico del racconto, accompagnato dalle musiche eseguite dal vivo da Giovanni Lo Cascio. Emanuele Trevi con la sua drammaturgia detta il tempo: 90 minuti di bocca spalancata ad assorbire le vibrazioni di parole, suoni e immagini.
Popolizio non perde un colpo. Diventa corpo e voce di quell’attimo di storia americana. Che poi è ancora storia di tutti i giorni.
Crisi agricola, tempeste di sabbia e poi di acqua. Il giogo delle banche: non è difficile mettersi nei panni di questi diseredati: perché, allora, non lo facciamo anche con i nuovi profughi?
Uno spettacolo da non perdere.