Le proiezioni sul riscaldamento globale lasciano poco spazio ai dubbi: il settore agroalimentare deve cominciare ad adattarsi da subito per fronteggiare le variazioni nelle piogge e nelle temperature previste per i prossimi anni. Anche se il settore è in forte ritardo, si stanno diffondendo soluzioni che possono contribuire a risolvere questi problemi. Il tutto, con un basso impatto ambientale
Solo qualche giorno fa, chi scrive segnalava che, in diverse località nel mondo, i record di temperatura venivano sgretolati uno dopo l’altro. Nemmeno il tempo di chiudere l’articolo e l’ondata di calore che ha investito la regione nord-occidentale degli Stati Uniti e la Columbia britannica si è addirittura intensificata.
A Portland, dove a fine giugno i termometri di solito non superano i 24-27°C, la colonnina di mercurio ha sfiorato i 44,4°C, record assoluto da quando sono disponibili rilevazioni strumentali affidabili.
Anche a Seattle, famosa più per le sue piogge che per il caldo, si sono superati i 40°C e dal 1894, da quando cioè esistono le misurazioni, è la prima volta che per due giorni consecutivi le temperature vanno oltre i 38 gradi.
Ma è dal Canada, paese che di solito non viene associato a temperature elevate, che vengono i dati più clamorosi. A Lytton, nella Columbia britannica, si sono infatti toccati i 46,1°C, valore più alto mai registrato in Canada (per la cronaca, il record precedente risaliva al 1937, 45°C nella provincia del Saskatchewan).
Anche nel nostro Paese continua a fare molto caldo ma, come sempre più spesso succede, i periodi bollenti lasciano repentinamente il posto a fasi di meteo estremo e per i prossimi giorni le previsioni parlano in effetti di temporali molto intensi, con grandinate e rischio tornado.
La combinazione tra temperature crescenti ed eventi estremi, oltre a costituire una minaccia per le persone e le proprietà, colpisce in modo diretto il settore della produzione alimentare.
Un nuovo studio, firmato da un team di ricercatori della Boston University, dell’Università Ca’ Foscari Venezia e della Fondazione Cmcc – Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici e pubblicato sul Journal of Environmental Economics and Management, ha stimato le perdite di produttività agricola nei prossimi anni.
I ricercatori, che hanno utilizzato sia modelli statistici sulle rese nel passato sia le proiezioni risultanti da una suite di 21 modelli su temperature e precipitazioni, stimano che a scala globale e in assenza di approcci da quelli utilizzati fino a oggi, i raccolti globali potrebbero diminuire del 10% al 2050 e del 25% entro fine secolo.
Ma, questo è il campanello d’allarme, a livello globale la capacità di adattamento potrebbe essere limitata. Analizzando infatti le serie storiche, il team di ricerca ha evidenziato come negli Stati Uniti, paese ai primi posti nel mondo per capacità tecnologica e disponibilità finanziaria nell’agroalimentare, le perdite nei raccolti di soia e mais causate dalle ondate di caldo estremo siano state recuperate solo dopo decenni.
Il tema è fondamentale, visto che si prevede che il riscaldamento globale colpirà più duramente proprio i tropici, regioni in cui già oggi scarseggiano le tecnologie e i capitali che potrebbero essere usati per rispondere ai picchi delle temperature.
I ricercatori hanno distinto in particolare tra strategie di breve periodo e risposte di lungo termine. Le prime, che si incentrano su irrigazione e fertilizzanti, possono essere messe in campo per rispondere al singolo evento estremo, mentre le seconde, tra cui rientrano i cambiamenti nelle colture, nelle date di semina e raccolto, nelle tecnologie e nei macchinari.
Purtroppo, a oggi risulta che sono pochissimi gli agricoltori nel mondo che hanno adottato quelle misure di lungo periodo che sarebbero davvero necessarie e che espongono il sistema agroalimentare globale a rischi sistemici legati alla variabilità del meteo e ai cambiamenti climatici.
Un altro degli effetti delle variazioni di temperature associate al riscaldamento globale è la modifica degli areali di diffusione e dei periodi di sviluppo di parassiti e patogeni.
Clever Bioscience, società che opera nel biotech e ha sede a Pavia, sfruttando competenze mutuate della microbiologia, dalla biologia molecolare e dalla biochimica ha ingegnerizzato alcuni peptidi derivati dalle piante per utilizzarli contro virus, funghi e batteri che danneggiano colture come il frumento.
I peptidi, che hanno un’efficacia paragonabile a quella dei prodotti chimici tradizionali, si caratterizzano per la bassa tossicità per l’uomo e gli organismi vegetali.
Secondo l’azienda pavese, che ha un settore di ricerca interno che collabora con il settore universitario e si occupa della prototipizzazione e dello scale up industriale dei prodotti, i peptidi non inducono lo sviluppo di meccanismi di resistenza, caratteristica molto vantaggiosa che li distingue ulteriormente di prodotti tradizionali.