Le bevande vegetali spopolano anche in Italia dove se ne producono di diversi tipi, dall’avena al riso, ma attenzione a chiamarli latte
Il termine plant based è entrato anche nel dizionario gastronomico italiano e seppur noi italiani diamo l’idea di essere scettici, quando si parla di cibo atipico per le nostre tavole, questi alimenti vegetali stanno avendo un grosso successo.
Vi avevamo già parlato dei sostituti della carne, ma c’è un’altra categoria di prodotto che nello Stivale ha spopolato, i drink vegetali. Anzi, forse ancora prima degli hamburger vegani, sono proprio queste bevande a rappresentare l’emblema di questa rivoluzione alimentare.
Nati come alternativa per gli intolleranti al lattosio e per vegani, queste bevande sono ormai dappertutto. Un report de l’Osservatorio di Veganok ha dichiarato che il mercato globale dei drink vegetali è stato valutato circa 12 miliardi di dollari nel 2019. E si prevede che crescerà e raggiungerà un valore di 22,4 miliardi entro il 2025
Secondo Coldiretti, in Italia circa 12 milioni di persone consumano bevande vegetali per un totale annuo intorno agli 85 milioni di litri. Alcuni dati stimano che il mercato italiano ha raggiunto un valore di 280 milioni di euro e continua a crescere.
La curiosità, la moda e il bisogno nutrizionale verso questi prodotti hanno dato un bel colpo di coda all’industria lattiero-casearia. Infatti, Coldiretti ha annunciato una diminuzione dei consumi di latte fresco pari al 2,1% sul territorio italiano.
Come per i sostituti della carne, anche i drink vegetali sono andati decisamente oltre il consumatore vegano e hanno abbracciato tutta la fascia interessata ad abbandonare il latte, ma senza rinunciare a macchiare il caffè, questa volta con soia o avena.
Il latte è costantemente messo a dura prova da questi nuovi prodotti. I consumatori li percepiscono come più sani e sostenibili. E come sempre, non bisogna affrettare giudizi generalisti. Cerchiamo quindi di conoscere un po’ di più questi drink vegetali.
Bevande vegetali, non esiste solo la soia
La regina indiscussa delle bevande vegetali nel Mondo e in Italia è la soia, che solo nel nostro Paese rappresenta il 48% del mercato.
Una ricerca condotta da Gvr, Grand view research, dichiara che a livello globale il valore di mercato dei drink di soia ha raggiunto i 7 miliardi di dollari. Rispetto alle altre fonti vegetali, il successo della soia si deve al fatto che la sua concentrazione proteica permette più facilmente di montare il drink e, quindi, di utilizzarlo come sostituto del latte per cappuccini e simili.
Ormai i bar italiani si sfidano a colpi di soia, tra chi la usa e chi resta fedele al classico latte.
Ultimamente però la soia è stata presa di mira da molti ambientalisti e questo ha portato il mercato a virare su altre fonti vegetali che sempre più prendono piede: specialmente l’avena, la mandorla e il riso. Gusti e consistenze diverse che li rendono ancora più di nicchia.
Il sostituto che sembra essere predestinato a fronteggiare la soia è l’avena, con proiezioni di mercato che vedono raggiungere la soglia dei 990 milioni di dollari entro la fine del 2027, secondo uno studio di Allied market research.
Anche in Italia stanno nascendo molte aziende che propongono drink vegetali e tra queste c’è Heaven, azienda specializzata in prodotti a base di avena. I loro drink – che si possono anche acquistare con consegna ecologica, grazie al servizio di Bici Couriers a Milano e Roma – sono inoltre confezionati in rPet incolore, riciclato al 50%, completamente riciclabile.
Milk sounding
Quando sono entrati nel mercato, questi prodotti hanno da subito acceso gli animi delle grandi multinazionali del latte specialmente per la loro nomenclatura o milk sounding.
Se all’inizio si poteva usare il termine latte di soia, da qualche anno a seguito di una sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, i nomi relativi ai prodotti lattiero-caseari, tra cui latte, formaggio e burro, possono essere utilizzati solo per fare riferimento a prodotti di derivazione animale.
Per questo motivo i termini latte, burro, cacio, formaggio, yogurt e così via non possono essere usati in etichetta per indicare prodotti di origine vegetale. Decisione in antitesi con il mondo dei burger vegetali, dove non è stato dichiarato un problema di meat sounding.
Ma questo non ha fermato quella che possiamo chiamare la lobby del latte, vista la costante minaccia di queste nuove bevande, che ha presentato ulteriori petizioni contro l’utilizzo di certe tecniche nella pubblicità dei drink vegetali.
Tra queste azioni si chiedeva il divieto di uso di parole come cremoso o burroso per informare il consumatore sulla consistenza e il sapore di un alimento a base vegetale.
Non solo, veniva anche chiesto il divieto della commercializzazione di confezioni per alimenti a base vegetale simili nello stile a quelli impiegati per i prodotti lattiero-caseari e il divieto dell’uso di immagini come quelle che ritraggono una bevanda bianca a base vegetale che viene versata in un bicchiere.
Infine, si chiedeva l’interdizione dell’uso di etichette che riportassero informazioni riguardo l’impatto climatico degli alimenti, per esempio includendo un confronto tra i prodotti a base vegetale e quelli lattiero-caseari per quanto riguarda la loro impronta di CO2.
Da qualche settimana l’Unione europea ha deciso di far cadere questa petizione, dichiarandola troppo rigida per i produttori di bevande vegetali, già penalizzati.
Il principio fondamentale di quest’ultima petizione e del divieto della parola latte per le bevande vegetali è l’idea secondo la quale i consumatori sono tratti in inganno. La parola latte di soia potrebbe indurre un consumatore a credere che al suo interno ci sia latte vaccino e quindi potrebbe confondersi.
È uno scontro linguistico di preposizioni, perché se è di soia non è con soia, ma è bastato a creare un dispendioso scontro tra le forze del mercato. La contraddizione è che i principali player molto spesso hanno i piedi in due scarpe, perché producono sia latte e derivati sia prodotti plant based per sostituirli.
Scontro tra tipi di latte, o quasi
Dati Ismea dicono che in Italia si producono 11 milioni di tonnellate di latte vaccino, 500mila tonnellate di latte di pecora, 60mila tonnellate di caprino; tutti prodotti in costante flessione di marketshare.
Per Coldiretti, uno dei motivi del loro calo di vendite è la propagazione di fake news sul consumo di latte, in favore dei drink vegetali. I due aspetti principali sfruttati a questo scopo sono quello della salute e quello ambientale.
Si è sentita circolare spesso l’informazione che dopo lo svezzamento l’uomo non dovrebbe più bere latte. Infatti, non beviamo più latte materno dopo un certo periodo, ma il desiderio di contatto con il nostro cibo primordiale ci ha portati storicamente a cercarlo in altre fonti.
L’uomo è l’unico essere a bere latte in età adulta, sottraendolo ad altri animali. Biologicamente il nostro corpo, raggiunta una certa età, non è più in grado di scindere il lattosio, lo zucchero del latte. A consentire la scissione è l’enzima della lattasi che molti esperti dicono non essere più attivo dopo una certa età.
Bisogna però dire che il latte è parte integrante di quasi tutte le culture gastronomiche mondiali e secondo alcuni studiosi nel tempo sembra che il genoma di alcune popolazioni si sia modificato per permettere una migliore digeribilità del lattosio.
Il secondo punto di scontro tra questi mondi di latte riguarda la sostenibilità della filiera. La produzione animale ha subito un forte attacco, lasciando pochi intoccati. Latte e carne sono al centro dell’inchiesta per il massiccio quantitativo di CO2 rilasciata dagli allevamenti intensivi.
Per questo, i drink vegetali si sono fatti garanti di una transizione gastronomica che punta a ridurre l’impatto ambientale delle nostre scelte alimentari.
Un report della Fao ha stabilito che per produrre un bicchiere di latte, circa 200 ml, siano necessari 200 litri di acqua. Questo è uno dei dati che principalmente muove le coscienze di chi beve vegetale.
Secondo un’indagine di Veganok, i drink a base di mandorla richiedono 74 litri di acqua per bicchiere e 54 litri quelli di riso. Meno certo del latte, ma comunque sempre uno sproposito per 200 ml di prodotto.
Sicuramente l’impronta idrica è un punto a favore delle alternative vegetali, ma non bisogna dimenticarsi dell’impatto della lunghezza della filiera di questi prodotti. La soia e il riso, in primis, sono diventati in alcune aree geografiche monocolture molto invasive.
Il Wwf ha puntato il dito contro la produzione della soia che causa la continua deforestazione in Brasile, in Indonesia e in altre aree favorevoli alla coltivazione di questa pianta. Anche la produzione di mandorle non è esente da critiche.
In California, primo produttore mondiale di mandorle, è una vera e propria monocoltura che sta causando forti problemi di siccità e di inquinamento. I mandorli, per quanto affascinanti, hanno bisogno di costanti trattamenti chimici per sopravvivere in certe condizioni e necessitano di grosse quantità d’acqua che vengono sottratte al territorio circostante.
Le nostre scelte hanno un impatto e la sostenibilità è un concetto complesso, ma la sensibilizzazione parte dall’informazione.