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Crisi climatica, abbiamo poco tempo, parola di Ipcc

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Immagine da Depositphotos

Un atlante delle sofferenze umane e un’accusa schiacciante rivolta al fallimento della leadership climatica: sono queste le parole, inusuali e durissime, con cui António Guterres, segretario generale delle Nazioni unite, ha commentato il nuovo report dell’Ipcc. Aggiungendo che abbiamo gli strumenti per decarbonizzare i nostri sistemi e costruire società resilienti. Ma la finestra di opportunità per limitare il riscaldamento a 1,5°C si sta chiudendo…

Chi scrive vive a Milano, dove da settimane non cade una goccia di pioggia e si levano gli allarmi per una siccità che rischia di avere effetti pesanti sull’agricoltura, un settore che sta già subendo i contraccolpi dell’invasione russa in Ucraina.

Tutto il Nord Italia soffre, ma la situazione peggiore si registra in Piemonte, con riduzioni nelle precipitazioni che sfiorano l’80% rispetto alla media stagionale.

Nel contempo, però, il New South Wales, nell’Australia sud-orientale, è stato colpito da inondazioni catastrofiche, che hanno già imposto un tributo pesante in termini di vite umane, costringendo decine migliaia di persone a lasciare le proprie abitazioni a Sidney: in molti, hanno definito queste alluvioni l’equivalente umido dei catastrofici incendi che hanno colpito il Paese tra il 2018 e il 2019.

Sconvolgimenti nel ciclo dell’acqua e (purtroppo) conflitti armati sono due delle possibili porte di ingresso al nuovo rapporto dell’Ipcc, intitolato Climate Change 2022 – Impacts, Adaptation and Vulnerability e presentato solo pochi giorni fa, in concomitanza con l’inizio dei bombardamenti russi, che hanno tra l’altro costretto gli scienziati ucraini che stavano partecipando a un meeting online per l’approvazione finale del report ad abbandonare la riunione e a correre in un rifugio antiaereo.

Il rapporto – davvero colossale, basti pensare che è lungo 3.675 pagine e include oltre 34.000 citazioni e riferimenti bibliografici, tutti rigorosamente peer reviewed – analizza gli impatti dei cambiamenti climatici sulla disponibilità di acqua nel quarto dei 18 capitoli in cui è siddiviso.

Oggi, circa metà della popolazione mondiale soffre di carenze idriche gravi per almeno un mese all’anno e dal 1970 il 44% degli eventi meteo estremi con vulnerabilità e danni alle popolazioni sono stati collegati ad alluvioni.

Negli ultimi due decenni le perdite delle superfici ghiacciate sono state pesantissime e, nel contempo, anche le acque sotterranee hanno fatto registrare delle riduzioni consistenti.

Secondo il report, i rischi correlati all’acqua aumentano con ogni incremento della temperatura: con 2°C di riscaldamento globale, la scarsità d’acqua potrebbe colpire 3 miliardi di persone, mentre a 4°C questa cifra salirebbe a 4 miliardi.

Rispetto alle condizioni attuali, la siccità agricola estrema in vaste aree del Nord e Sud America, del Mediterraneo (che è uno degli hot spot individuati da anni per gli impatti del riscaldamento globale) e dell’Eurasia sarebbe due volte più probabile a 1,5°C, 150-200% più probabile a 2°C e di oltre il 200% più probabile a 4°C.

Crisi climatica: il ciclo idrico influenza anche l’agricoltura

Le variazioni nel ciclo idrico impattano direttamente sui sistemi di produzione alimentare, e per gli autori dell’Ar6 i cambiamenti climatici stanno ostacolando sempre di più gli sforzi per soddisfare il fabbisogno calorico e nutrizionale dell’umanità.

Tutti i passaggi nella filiera dell’agroalimentare saranno impattati dal riscaldamento globale e c’è un’alta fiducia che gli eventi meteorologici estremi porteranno alcune delle attuali aree di coltivazione fuori dallo spazio climatico sicuro per la produzione, un modo asettico per dire che in alcune regioni sarà impossibile sia coltivare quello che si coltiva oggi sia allevare animali.

Oltre alla riduzione delle rese, i cambiamenti climatici ridurranno il contenuto di nutrienti essenziali come proteine, zinco e ferro di varie piante, contribuiranno a modificare l’areale di diffusione di infestanti e patogeni e andranno a impattare anche sulla produzione ittica, che subirà anche gli effetti dell’acidificazione e della riduzione dei livelli di ossigeno.

Il rapporto mette in luce la possibilità di shock ai sistemi di produzione alimentare globali, in cui siccità sincrone e altri eventi meteorologici estremi colpiscono la produzione agricola in più regioni del mondo.

L’Ar6 dedica poi un capitolo agli impatti sulle aree urbane, in cui nei prossimi anni si concentrerà una parte crescente della popolazione mondiale e che, a causa della combinazione tra posizione, densità di popolazione e concentrazione di edifici e infrastrutture, sono e saranno particolarmente esposte alle ondate di calore e alle alluvioni.

Le proiezioni sono allarmanti: se oggi una piccola frazione della popolazione urbana, concentrata prevalentemente nel Sud Est asiatico, rischia di essere esposta a condizioni di ipertermia, già nel 2050 queste condizioni potrebbero estendersi anche in Africa e Sud America.

Inoltre, il rapporto sottolinea anche che a causa dell’espansione urbana e del cambiamento dei modelli di precipitazioni, quasi un terzo di tutte le grandi città del mondo potrebbe esaurire le loro attuali risorse idriche entro il 2050.

D’altro canto, sempre entro il 2050 più di un miliardo di persone situate in città prossime o al di sotto del livello del mare saranno esposte a rischi climatici specifici per le coste, fattore da mettere in relazione al fatto che la crescita economica sarà concentrata prevalentemente sulle aree delle coste.

Il fattore inquinamento

Il report dedica poi una parte all’inquinamento e sottolinea come il 95% della popolazione mondiale oggi viva in aree in cui l’inquinamento eccede i limiti indicati dalla World Health Organization.

L’Ar6 approfondisce poi gli impatti sulla salute fisica e mentale. Uno dei più evidenti è il calore estremo – che può portare a disidratazione, collasso degli organi, malattie cardiovascolari e persino alla morte.

L’aumento delle temperature è collegato a un incremento nei ricoveri ospedalieri per disturbi dell’umore e del comportamento, a esperienze di ansia, stress post-traumatico e depressione.

L’interruzione delle infrastrutture e dei servizi di base in seguito agli eventi meteo estremi può essere molto dannosa per le comunità colpite e le perturbazioni sono spesso associate a un aumento della violenza contro le donne, le ragazze e i gruppi vulnerabili.

Inoltre, il clima è uno dei driver nella diffusione di tutta una serie di malattie. Per esempio, varie specie di zanzare stanno espandendo il loro areale, cosa che permette a malattie come la febbre dengue e la malaria di diffondersi in nuove aree.

Nel frattempo, il rapporto dell’Ipcc sottolinea che c’è un’alta fiducia nel fatto che i cambiamenti climatici sono un fattore di crescente importanza nei fenomeni di migrazione involontaria.

In particolare, continuando sull’attuale traiettoria emissiva, nella seconda metà di questo secolo centinaia di milioni di persone (ma i numeri dipendono fortemente dalle condizioni socioeconomiche) saranno a rischio di migrazioni a causa dell’aumento del livello del mare, delle inondazioni, dei cicloni tropicali, delle siccità, del calore estremo e degli incendi.

Come si vede da questo elenco, inevitabilmente parziale, considerata l’ampiezza degli argomenti trattati, gli impatti dei cambiamenti climatici saranno pesanti e imporranno di individuare nuovi percorsi di adattamento.

Questa è una delle parti in cui l’Ar6 si differenzia di più dai rapporti che l’hanno preceduto, fatto che riflette sia un ampliamento delle conoscenze sia una maggiore urgenza.

Anche se sono stati implementati svariati progetti, a livello globale le risposte sono state complessivamente basse e ci sono prove trascurabili che le risposte esistenti siano adeguate a ridurre i rischi climatici.

Potrà l’uomo adattarsi ai cambiamenti climatici?

Inoltre, gli autori del report evidenziano che persistono tuttora gravi lacune di conoscenza nella modellazione e nell’analisi delle dinamiche di adattamento.

Viene poi discusso più in profondità, rispetto ai report precedenti, il tema dei limiti dell’adattamento, intesi come una soglia oltre la quale le azioni di adattamento non sono più sufficienti a proteggere gli obiettivi di un soggetto o i bisogni di un sistema non possono essere protetti dai rischi climatici.

Questi limiti dell’adattamento sono classificati come soft o hard. I limiti morbidi tendono a essere quelli legati alle attività umane: le misure contro le inondazioni potrebbero non essere costruite perché manca il denaro o perché le persone con le competenze per costruirle sono troppo poche.

I limiti rigidi sono invece associati ai sistemi naturali: secondo l’Ar6 è probabile che le cosiddette Nature Based Solutions possano raggiungere i loro limiti rigidi già con 1,5°C di incremento e perdere progressivamente di efficacia.

In risposta, il nuovo report dell’Ipcc si concentra sull’adattamento trasformazionale: l’adattamento è stato, fino a oggi, incrementale e ha solo modificato i sistemi esistenti.

L’adattamento trasformazionale, a cui guarda il panel delle Nazioni unite, cambia invece gli attributi fondamentali dei sistemi socio-ecologici e può permettere a un sistema di superare i suoi limiti morbidi, impedendo che diventino limiti duri.

Il rapporto esplora anche il tema del disadattamento, che si ha quando le misure di adattamento portano a un incremento della vulnerabilità climatica di un sistema, settore o gruppo.

È quello che si potrebbe per esempio verificare quando l’espansione delle energie rinnovabili va a danneggiare la biodiversità di un’area, o nel caso in cui si avesse una massiccia espansione dei sistemi di bioenergia con cattura e sequestro del carbonio, che richiederebbe la conversione di vaste aree di terreno in piantagioni per le bioenergie, minacciando anche in questo caso la biodiversità.

L’Ar6 approfondisce poi il tema delle Nature Based Solutions. Se si riuscisse a superare le questioni sui limiti di adattabilità, queste soluzioni potrebbero in effetti dare benefici alle persone, al clima, alle specie selvatiche e agli habitat.

Tuttavia, se i progetti di mitigazione Nature Based sono progettati male, possono avere molteplici impatti negativi: potrebbero infatti esacerbare la competizione per la terra e le risorse idriche, o non riuscire a fornire una mitigazione che sia sostenibile a lungo termine.

Affinché le Nbs abbiano successo, è fondamentale che sostengano le comunità locali, che dovrebbero beneficiare ed essere attivamente coinvolte nei processi decisionali.

Tuttavia, viene ribadito con forza che le soluzioni basate sulla natura non possono essere considerate né un’alternativa né una ragione per ritardare i tagli profondi delle emissioni di gas serra che restano assolutamente indispensabili.

Infine, tra le innumerevoli questioni trattare nel report, merita di essere segnalata l’allarme lanciato sulla disinformazione sul clima che, specie negli Stati Uniti, viene finanziata da interessi economici molto potenti sta contribuendo a polarizzare il dibattito andando a rallentare l’azione contro i cambiamenti climatici.

Crediti immagine: Depositphotos

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