Home Eco Lifestyle Troppa plastica nei laboratori: come rendere sostenibile la ricerca?

Troppa plastica nei laboratori: come rendere sostenibile la ricerca?

plastica nei laboratori
Foto di Sintija Valucka da Pixabay

Inerte, sterile e soprattutto economica: la plastica a oggi continua ad abitare i laboratori di ricerca senza rivali, o quasi. Serve un cambio di rotta in direzione di una Scienza sempre più plastic-free, ma per farlo l’industria è chiamata a offrire il proprio contributo.

Quis custodiet custodes? scriveva il poeta latino Giovenale nelle sue Satire; quasi duemila anni sono passati, eppure la domanda che viene da porsi oggi quando si decide di affrontare la questione legata allo spreco di plastica e allo sviluppo di alternative sostenibili resta sostanzialmente identica.

Se è vero, infatti, che la ricerca scientifica promette di liberarci un giorno dall’angoscioso problema dell’inquinamento derivato dall’uso smodato della plastica, d’altra parte bisogna anche ammettere che proprio il campo della Scienza resta a oggi uno di quelli che ancora sembra avere grosse difficoltà a svincolarsi dall’utilizzo di questi materiali.

Chi sta custodendo i custodi, allora? Il paradosso è tanto più innegabile viste le proporzioni del fenomeno: nel 2015, per la prima volta, alcuni ricercatori dell’Università di Exeter (Regno Unito) hanno deciso di innescare una riflessione sull’argomento tramite un articolo sulla rivista Nature, una delle più importanti in ambito scientifico, portando come esempio proprio il dipartimento in cui loro stessi operavano.

Dalle loro misure era emerso che, per i 280 scienziati attivi nel dipartimento di bioscienze e solo nell’anno precedente alla pubblicazione dell’articolo, la quantità complessiva dei rifiuti in plastica generati risultava pari a circa 267 tonnellate, l’equivalente di circa 5,7 milioni di bottiglie vuote in plastica da due litri.

Misure un po’ datate, si potrebbe obiettare: se volgiamo lo sguardo in ambito biomedico, però, la situazione è tutt’altro che incoraggiante. Infatti, secondo alcune stime, il 25 % dei rifiuti ospedalieri e dei laboratori biologici, pubblici e privati, è costituito da plastica.

In particolare, in ambito sanitario, i dispositivi monouso sono una grandissima fonte di inquinamento da plastica, nonostante esista una legislazione europea e nazionale severa in merito al loro smaltimento.

Senza considerare il solito game-changer degli ultimi anni, l’emergenza causata dalla pandemia, che non ha fatto altro che ingigantire il problema, aumentando la necessità di utilizzare prodotti usa e getta da parte di operatori e pazienti.

Non che il campo della Scienza e i suoi laboratori provino gusto a consumare così tanta plastica, soprattutto monouso: il materiale offre indubbi vantaggi sotto numerosi punti di vista e le vie alternative sono spesso difficili da percorrere.

D’altra parte, nei laboratori che si occupano, a vario titolo e con diverse finalità, di analisi e ricerca in ambito biologico, si utilizzano pipette con puntali monouso in plastica, prevalentemente sterili, per aspirare i liquidi biologici.

Dopo il loro utilizzo, tuttavia, tali puntali devono essere per legge considerati rifiuti speciali, in quanto possono essere contaminati e, pertanto, non possono neanche essere riciclati.

Insomma, le buone pratiche, per chi sposa la causa della sostenibilità anche in laboratorio, costituiscono un primo passo, ma da sole non bastano. Anche le industrie sono chiamate a fare il proprio dovere: garantire quanto prima la disponibilità di strumenti a minor impatto ambientale, mantenendo al contempo dei prezzi competitivi.

Nel nostro Paese, fortunatamente, alternative sostenibili per i dispositivi di laboratorio cominciano a fare la propria comparsa sul mercato. È il caso, per esempio, dell’azienda italiana Resnova, che – a dire il vero – già dal 2015 ha ideato un sistema per rendere più sostenibile la ricerca scientifica.

L’idea in sé è stata piuttosto semplice: sostituire i contenitori di plastica dei puntali da laboratorio con delle confezioni ricaricabili, in un formato box da 10 rack, dei quali 9 sono rack di cartoncino, singoli e sterili, mentre 1 solo rack è interamente in plastica.

Quindi molto meno plastica, sostituita da cartoncino, più leggero, degradabile e che può essere eliminato insieme alla normale carta, minor peso di trasporto (-30%) e minor costo.

L’impatto del prodotto, invece, è stato fin qui tutt’altro che scontato: dal suo lancio nel 2015, con questo espediente la quantità plastica risparmiata ha superato le 15 tonnellate; soltanto nel 2021 si parla di circa 2,1 tonnellate di plastica non impiegata grazie all’utilizzo del formato Eco-reload anziché di quello standard.

Un esempio virtuoso, quello di Resnova, che testimonia come raggiungere l’obiettivo di laboratori plastic-free (o quasi) sia in realtà possibile, ma richieda un piccolo impegno non solo da parte dei ricercatori che la scienza la fanno.

Le aziende, pur piccole e dinamiche, possono dare un contributo pesantissimo e fondamentale in questo senso scommettendo sulla sostenibilità anche all’interno delle mura dei laboratori di ricerca.

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