Storia della concia lenta che ha caratterizzato per lungo tempo un’importante industria sarda. Ora non si fa più ma la visita al Museo delle Conce di Bosa dimostra che c’erano anche buone pratiche. A cominciare dal modello di economia circolare adottato…
Difficile per me viaggiare con la testa nel sacco, soprattutto quando si incontrano storie che ci fanno comprendere quanto poco in realtà si stia inventando oggi. Mi spiego.
La lampadina per la preparazione di questo articolo si è accesa dopo aver conosciuto il Museo delle Conce di Bosa, un comune di 7.490 abitanti della provincia di Oristano, nella costa occidentale del centro-nord della Sardegna, un vero unicum in Italia, essendo l’altro Museo delle Concerie di Santa Croce sull’Arno (Pisa) ormai chiuso.
La visita è stata guidata da Emanuela Sconamila, che con grande passione ci ha progressivamente introdotti in questo pezzo di storia della Sardegna e di conoscenza di questo piccolo – ma storicamente molto importante – museo che parla di un’economia di sussistenza, in cui si faceva tesoro di tutto.
Emanuela, con un background di studi delle lingue straniere, alcune esperienze pregresse nell’azienda familiare, in agenzia viaggi e nel settore cultura, opera oggi all’interno della società Tacs Visits & Tours di Suni (sempre in provincia di Oristano), presieduta da Cristina Concu, che gestisce aree pubbliche e fornisce servizi agli enti locali.
La vocazione principale della cooperativa è la valorizzazione dei siti archeologici, dei beni museali e degli spazi culturali come biblioteche, mostre e parchi e tra questi rientrano anche l’insieme dei Musei Civici di Bosa (costituiti dal Museo Casa Deriu, dalla Pinacoteca Atza, dall’Esposizione Melchiorre Melis, il Museo delle Concerie e la Torre Aragonese di Bosa Marina).
Il museo si trova sulla riva sinistra del fiume Temo, all’interno di un edificio risalente al ‘700 situato nel quartiere che veniva definito, in sardo, Sas Conzas, perché è lì che si è sviluppata l’attività della concia delle pelli, fuori dalle mura cittadine per impedire che si propagassero cattivi odori in città, con circa 30 opifici attivi ai tempi del massimo splendore.
Si tratta di un importante simbolo di archeologia proto-industriale della Sardegna e in particolare di Bosa, dove la tradizione conciaria risale ai tempi della dominazione romana, viene riscoperta nel ‘600 e cresce fino a diventare attività floridissima dal secondo ‘800 a tutta la prima metà del ‘900.
Progressivamente, l’attività si riduce, cessando nella seconda parte del XX secolo a causa dell’insalubrità del processo produttivo e dei miasmi prodotti dalla lavorazione, ormai incompatibili con la nuova vocazione turistica della città, tanto che gli edifici costruiti in una bellissima trachite rossa, sono stati riconvertiti negli ultimi decenni per ospitare attività commerciali e abitazioni.
L’economia circolare non è una novità di oggi
Nel corso della visita i miei compagni di viaggio e io siamo venuti a conoscenza anche dell’intero ciclo di lavorazione della concia delle pelli e abbiamo potuto comprendere come, già nell’800 – ma addirittura prima – si praticasse un’economia circolare (definizione troppe volte, ancora oggi, riferita solo al riciclo dei rifiuti) in maniera assolutamente naturale, perché dettata dal concetto di non dovere buttare nulla e di potere riutilizzare ogni scarto.
Entrando nel museo si ha subito l’impatto con il lungo e faticoso processo di produzione: al piano terra si trovano il pozzo, la pressa e i vasconi dove le pelli venivano immerse.
Si cammina sulla superficie vetrata che ricopre le vasche originali e ci si può immedesimare nella dura fatica giornaliera dei lavoranti, che usavano dei bastoni per rigirare le pelli all’interno delle vasche.
Successivamente avveniva un primo risciacquo per eliminare sporcizia ed eventualmente il sale, poi gli ammolli con la calce per indebolire il pelo, in seguito la depilazione e la scarnitura e, infine, la concia vera e propria con la corteccia di leccio (contenente tannino) e, al primo piano, le ultime fasi di asciugatura e rifinitura.
Il risultato finale erano la suola e la vacchetta, prodotto, questo, particolarmente pregiato richiesto dai legatori di libri per il lavaggio, cagliaritani, e altri prodotti che venivano esportati verso Genova e la Francia.
Fino al 1920 il metodo di lavorazione era quello della concia lenta, che durava sei mesi ed era organizzato in tre fasi (pre-concia, concia vera e propria e rifinitura) durante le quali tutto il trattamento avveniva a mano e, come abbiamo visto, con soluzioni che andavano dall’acqua e soda, alla purga con escrementi di cane, alle cortecce di leccio, a tappi di legno, all’olio di tonno mischiato con grasso bovino, al sapone naturale e cera.
Il processo di lavorazione delle pelli ha ovviamente subito dei mutamenti, tra l’800 e il ‘900, grazie all’introduzione dell’energia elettrica e di nuovi macchinari e nel 1920 la conceria dei fratelli Sanna-Mocci, tra le tre più importanti di Bosa a quel tempo, introduce il metodo della concia rapida che prevedeva un ciclo di soli 45 giorni, pur mantenendo le tre fasi e l’uso dell’erodina (un macerante artificiale) invece degli escrementi di cane.
Gli intrecci della storia
Come accennato, dalle circa 30 imprese registrate si arriva a 23 nel 1860 e a 15 nel 1887, e la progressiva concentrazione da parte di alcune delle concerie più grandi (Fratelli Solinas, Mocci Marras, Sanna-Mocci) porta intorno al 1950, alla presenza di una sola realtà, la Sanna-Mocci, l’unica e ultima grande impresa conciaria cittadina.
In questa fase, ovviamente, avvengono anche cambiamenti sociali e politici a Bosa e nel 1868 viene istituita la Società Operaia di Mutuo Soccorso, istituzione particolarmente impegnata nella difesa dei lavoratori del cuoio, tanto che tra i soci figurano conciatori, sellai, calzolai, bottai.
Senza pretendere di fare qui una completa ricostruzione storica, mi è sufficiente ricordare che a causa delle pessime condizioni di lavoro e dei ritardi nel pagamento degli stipendi, nel 1902 i lavoratori rispondono con uno sciopero e, più avanti, in concomitanza con la seconda guerra mondiale, nel 1942, le ditte Solinas e Mocci Marras scompaiono, mentre ai fratelli Sanna-Mocci, che hanno grandi potenzialità produttive (30 quintali mensili di cuoio) si affianca la conceria di Giovanni Contini (con 15 quintali mensili), entrambe contingentate per esigenze belliche.
Come abbiamo visto, è stata la conceria Sanna-Mocci ad attrezzarsi per la concia rapida, rendendola perfettamente corrispondente alle esigenze dei capitolati militari e meritevole, nel 1924, di uno degli ultimi riconoscimenti che il settore conciario sardo ottiene fuori dall’isola: il gran premio e la medaglia d’oro assegnati nel corso della Fiera Internazionale di Roma.
Gli anni ’60 del Novecento non riescono a rappresentare il salto più radicale e ampio in una nuova prospettiva industriale e così viene decretata la chiusura definitiva delle concerie.
La funzione sociale della memoria
Pur trattandosi di una realtà molto importante, che ha fatto la storia e la ricchezza di Bosa, noi stessi siamo rimasti stupiti dal fatto che il Museo non sia adeguatamente promosso e indicato per chi arriva in paese, ma fortunatamente, come ci ha raccontato Emanuela, c’è una buona diffusione delle informazioni a livello del mondo dell’educazione (scuole di ogni ordine e grado).
Numerosi sono, invece, i visitatori stranieri – normalmente più informati di noi sui pregi dei nostri territori – tanto che proprio di recente c’è stata la visita di una ventina di studenti Erasmus.
“Certo, per i giovani è oggi difficile immaginare le modalità e i tempi di lavoro di allora – ricorda Emanuela – ma mi risulta che di recente sia anche stata scritta una tesi di laurea proprio su questo tema“.
Molto interessante, quindi, il lavoro di ricostruzione e di trasmissione della conoscenza da parte di alcuni eredi delle concerie, in particolare Elisabetta Sanna, che ha scritto un volume dedicato, dal titolo Le concerie di Bosa.
Ciò che sorprende visitando il Museo, è il fatto che, anche se di piccole dimensioni, contiene molto materiale: macchine, strumenti e immagini fotografiche che da soli possono comunque rendere l’idea della fatica e dell’impegno profuso in quel tipo di lavorazioni.
Valorizzare il territorio attraverso la rappresentazione del reale
Prima di concludere la visita e la chiacchierata con Emanuela abbiamo voluto fare un’ultima domanda, cioè quali siano gli attuali progetti che trainano l’economia e la realtà sociale di Bosa e quale sia il ruolo del turismo.
“Si tratta di un aspetto particolarmente interessante – sostiene Emanuela – che può essere oggetto di campagne di promozione del territorio di Bosa e della Sardegna più in generale, più ampie che non riguardino solo il mare e le coste, ma anche la storia e la cultura“.
E in proposito, proprio in relazione a Bosa, Emanuela sottolinea quanto meriterebbero di essere ricordati alcuni antichi mestieri bosani, come la maestria nel costruire (il muratore, su mastru, era considerato alla stregua di un architetto), l’arte orafa, la lavorazione del filet.
Sappiamo, però, che oggi resta comunque molto più nota la lavorazione della famosa Malvasia di Bosa, un vino pregiato, da meditazione, che ha il colore dell’oro, un profumo intenso come quello del mare e che porta con sé secoli di storia che abbraccia praticamente tutto il Mediterraneo.