Il principio di precauzione è applicato solo alla sfera antropocentrica e poco quando a rischio ci sono la biodiversità e l’ambiente: come nel caso del Deep Sea Mining, la tecnica per estrarre metalli e terre rare dalle profondità marine, che potrebbero avere impatti ancora poco noti e non del tutto misurati e misurabili sull’oceano.
Sono “giornate cruciali per difendere biodiversità dell’oceano ed è necessario applicare il principio di precauzione“: così si esprime Francesca Santoro, senior program officer per Ioc-Unesco e responsabile a livello mondiale dell’Ocean Literacy per il Decennio delle Scienze del Mare per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite, a proposito del Deep Sea Mining, la tecnica di estrazione di metalli e terre rare nelle profondità marine, che ha infatti degli impatti sull’oceano ancora poco conosciuti.
Quali impatti avrà la ricerca effettuata sui fondali marini per l’estrazione di metalli pregiati per l’industria? Non molto e per questo – come avviene nel caso degli Ogm, della carne coltivata e di molti altri argomenti spinosi – si dovrebbe applicare il principio di precauzione, per evitare un irreversibile impatto sulla biodiversità marina.
La Santoro commenta partendo da questo principio i lavori dell’International Seabed Authority (Isa) che si stanno svolgendo a Kingston in Giamaica (dal 10 al 21 luglio si è riunioto il Consiglio, dal 24 al 28 luglio l’Assemblea) che si esprimerà sulle concessioni e le licenze relative alle esplorazioni del fondale marino.
Irlanda, Brasile, Canada, Finlandia e Portogallo si sono uniti alla campagna Look Down, lanciata nel 2022, che vede Fiji, Palau, Samoa, Cile, Costa Rica, Ecuador, Fsm (Stati Federati di Micronesia), Spagna, Nuova Zelanda, Francia, Germania, Panama, Vanuatu, Repubblica Dominicana, Svizzera e Svezia chiedere una moratoria contro l’estrazione mineraria in acque profonde.
L’Italia finora non si è espressa sul tema del Deep Sea Mining, ma prende parte alla riunione internazionale dell’Isa, all’interno del Consiglio.
“È davvero incoraggiante vedere che molti Paesi stanno aderendo alla richiesta di una moratoria internazionale – afferma Santoro – per bloccare la possibilità di condurre attività di estrazione fino a quando non si avrà un quadro più preciso sulle conseguenze a livello ambientale, così da proteggere l’oceano“.
La domanda per minerali fondamentali per la transizione ecologica come nickel, cobalto, rame e manganese sta aumentando in maniera consistente in tutto il mondo e la loro estrazione dal fondo marino viene considerata come un nuovo mezzo per ottenerli.
“Prima di farlo è essenziale comprendere appieno l’impatto ambientale di questa attività estrattiva dal profondo dell’oceano e confrontarlo con l’impatto ambientale dello stesso tipo di attività sulle terre emerse” spiega Francesca Santoro.
La ricerca sull’impatto di queste attività sull’ambiente marino è ancora all’inizio, ma si sa già che uno degli effetti principali del Deep Sea Mining è lo sviluppo di nubi di sedimenti che contribuiscono a un aumento della torbidità della colonna d’acqua e alla modifica degli ecosistemi marini.
Questo può generare un impatto negativo sugli organismi pelagici, ovvero quegli organismi che nuotano e si muovono nella colonna d’acqua seguendo le correnti – tra loro, per esempio, tartarughe, tonni e delfini.
Per Santoro “L’aumento della torbidità, inoltre, ridurrà la disponibilità di luce solare in acqua e quindi avrà un impatto sugli organismi marini che sono in grado di effettuare la fotosintesi. Inoltre ci sarà chiaramente un impatto diretto sugli ecosistemi marini del fondale e sugli organismi bentonici, che verranno rimossi assieme ai sedimenti“.
Serve allora continuare a mappare i fondali marini (sea floor) e contemporaneamente coinvolgere, sensibilizzare ed educare sul tema più persone e aziende possibili. Una mappatura, effettuata dall?isa, ancora poco accurata e completa.
“Secondo i dati delle Nazioni Unite, a oggi solo il 25% dei fondali oceanici è stato mappato. Anche per questo – conclude Francesca Santoro – l’obiettivo dell’Unesco, nell’ambito del Decennio delle Scienze del Mare per lo Sviluppo Sostenibile (2021-2030) delle Nazioni Unite, è quello di mappare almeno l’80% dei fondali marini entro il 2030 così da poter individuare e proteggere quante più aree possibili“.
In quest’ottica è stata importante l’approvazione dell’Accordo per la Tutela dell’Alto Mare – High Sea Treaty – da parte dell’Onu che si propone di inserire entro il 2030 il 30% dei mari in aree protette, per salvaguardare e recuperare la natura marina.
Anticipando i lavori della commissione Isa, Greenpeace ha nei giorni scorsi messo in scena un flash mob mostrando uno striscione con il messaggio Stop Deep Sea Mining.