Smaltire i rifiuti plastici del packaging dandoli (letteralmente) in pasto agli insetti: un progetto europeo studia il modo per biodegradare la plastica sfruttando l’attività di insetti, lombrichi e funghi.
Nella storia dell’uomo poche sono le invenzioni che possono vantare un impatto tanto profondo quanto quello che ha avuto la plastica.
Da quando questi prodotti sintetici hanno visto la luce, i numeri relativi alla produzione e diffusione di materiali plastici parlano di una vera e propria rivoluzione: per avere un’idea, stando alle stime di National Geographic, la produzione di plastica è cresciuta nel tempo in maniera così esponenziale da portare la produzione dai 2,1 milioni di tonnellate nel 1950 ai 406 milioni di tonnellate nel 2015.
Una crescita smodata e inarrestabile, di cui una fetta importante della responsabilità è da ascrivere anche alla diffusione di imballaggi in plastica per i prodotti di più varia natura. D’altra parte, i vantaggi di questo materiale sono indiscussi: è leggera, igienica e soprattutto economica.
Di raccontare gli effetti di tale abuso e del conto che ora ci viene presentato rispetto a questa impennata senza freni nella produzione di plastica, probabilmente non ce n’è nemmeno bisogno, dal momento che le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti e la proporzione del fenomeno è ben chiara, anche quando si cerca di ignorarla.
E trovare una soluzione efficace ovviamente non è facile. Qualcosa, però, si muove.
È il caso di Recover, il progetto finanziato dall’Unione Europea che mira a studiare la biodegradazione della plastica impiegata nel packaging industriale e nelle attività agricole ricorrendo alle capacità di insetti, lombrichi e funghi.
L’obiettivo è quello di progettare sistemi innovativi di compostaggio dove le plastiche differenziate in maniera scorretta possano essere letteralmente mangiate da questi organismi.
La strategia per raggiungere l’ambizioso scopo è quella di un approccio sinergico: Recover, infatti, riunisce sotto la propria insegna partner provenienti da Italia, Germania, Spagna, Belgio, Gran Bretagna e Portogallo.
Nel nostro Paese, a occuparsi del progetto sono gli ingegneri chimici del Dipartimento di Ingegneria Civile e Industriale (Dici) dell’Università di Pisa, dove il gruppo di ricerca si occupa di verificare l’effettiva biodegradazione dei diversi materiali a seguito del trattamento e di sviluppare la logistica e la progettazione degli impianti di compostaggio del futuro.
“Nel settore agroalimentare – commenta Patrizia Cinelli, docente di Fondamenti Chimici delle Tecnologie al Dici – si ricicla solo circa il 30% della plastica impiegata nel packaging o in agricoltura. La maggior parte finisce dispersa nell’ambiente o nei termovalorizzatori.
In questo scenario, l’analisi dei tempi e dei modi di biodegradazione della plastica dispersa nell’ambiente assume una grande rilevanza: dobbiamo capire in quanto tempo si biodegrada e se facendolo ha un impatto sull’inquinamento del suolo.
Il riciclo è difficile, perché richiede che le varie plastiche siano separate e spesso quelle usate per gli imballaggi del cibo ne contengono residui.
Parte del lavoro di Recover consiste nell’individuare le plastiche più adatte a essere biodegradate, definendo metodi adatti a raccoglierle e pretrattarle, per poterle poi dare in pasto a enzimi e microorganismi“.
Anche la scelta dei piccoli protagonisti di questo approccio insolito è tutt’altro che casuale: insetti e microorganismi coinvolti nello studio sono stati selezionati dopo un’attenta valutazione delle loro caratteristiche in natura e in seguito potenziati con enzimi che li rendono maggiormente capaci di assorbire la plastica necessaria e degradarla.
E se già fino a questo punto il progetto può sembrare ambizioso, di certo stupirà il fatto che il lavoro di Recover punta a spingersi ancora oltre: non solo degradare la plastica in eccesso, ma anche trasformarla, darle nuova vita sotto forma di prodotti a valore aggiunto.
In una futura fase di sviluppo della ricerca le previsioni sono quelle di ricavare dallo scheletro degli insetti impiegati una sostanza chiamata chitina, che a sua volta può essere trattata per produrre chitosano, polimero dalle note proprietà anti-microbiche, valorizzabili in prodotti per imballaggio attivo, agricolo e cura della persona.
Dai residui organici degli insetti e dei lombrichi, invece, il piano è di generare biofertilizzante. Il sistema, insomma, è progettato per aderire in pieno ai princìpi dell’economia circolare.
“La messa a punto di una catena di smaltimento virtuosa, tuttavia, non toglie che del lavoro debba essere fatto per ridurre al minimo l’impiego di plastica nel packaging e gli sprechi alimentari – conclude Cinelli – ma almeno avremo a nostra disposizione uno strumento in più per limitare gli immensi danni all’ambiente che ora provoca la dispersione della plastica nel suolo e nel mare“.