Fino a oggi, gli oceani sono stati i nostri migliori alleati nella lotta ai cambiamenti climatici. Assorbono infatti una parte importante del carbonio che riversiamo nell’atmosfera e contribuiscono a rallentare la crescita delle temperature globali. Questo equilibrio rischia tuttavia di spezzarsi, con impatti che potrebbero essere davvero catastrofici. Per fortuna, si moltiplicano le ricerche scientifiche e le iniziative per raccogliere informazioni e sensibilizzare su queste tematiche
A meno che non siate appassionati di biologia marina, è difficile che riusciate a rispondere in modo corretto alla domanda “quali sono i vegetali che colonizzano gli ambienti costieri nel Mediterraneo?“.
La risposta più probabile è “le alghe” e, in effetti, la si potrebbe dare per buona, visto che queste ultime costituiscono il 94% della diversità vegetale marina. Rimane però quel 6% che viene ricompreso nel termine “fanerogame marine” e che è composto da piante marine con fiori, le cui progenitrici, dopo essersi diffuse sulla terraferma, circa 120 milioni di anni fa si sono adattate alla vita in mare.
Diffuse vicino alle coste di tutto il mondo a eccezione dell’Antartide, vivono completamente immerse nell’acqua salata, dove riescono ad ancorarsi al fondale e hanno un sistema di impollinazione idrofilo, con il polline che viene trasportato dall’acqua.
Della sessantina di specie identificate, nel Mediterraneo ne sono presenti cinque, Posidonia oceanica, Cymodocea nodosa, Nazostera noltii, Zostera marina, Halophila stipulacea, che formano vaste praterie vicine alle linee costiere.
Queste piante sono considerate “ingegneri di ecosistemi“: la loro presenza modifica così profondamente i fattori chimico-fisici che circolano attorno e attraverso di loro che riescono letteralmente a costruire il loro ecosistema, al cui interno giocano quindi un ruolo centrale.
Anche se sono presenti solo sullo 0,1% della superficie degli oceani, ospitano infatti una biodiversità ricchissima e riescono ad assorbire quantità colossali di carbonio (secondo alcune stime quasi un quinto del carbonio negli oceani è stoccato nelle fanerogame), contribuendo così a mitigare gli effetti del riscaldamento globale.
Tuttavia, l’azione combinata dei cambiamenti climatici, dell’inquinamento e dell’urbanizzazione delle coste minacciano questi ecosistemi, considerati tra i più a rischio sulla Terra.
Le loro possibilità di sopravvivenza, stante l’impossibilità di migrare in tempi rapidi, dipendono perciò dalla plasticità fenotipica, cioè dalla capacità di modificare i propri parametri fisiologici e genetici e fronteggiare i rapidi cambiamenti che stanno investendo gli oceani.
Nello studio Phenotypic plasticity under rapid global changes: the intrinsic force for future seagrasses survival, pubblicato su Evolutionary Applications, Gabriele Procaccini e Jessica Pazzaglia, assieme a Thorsten B.H. Reusch, Antonio Terlizzi e Lázaro Marín‐Guirao, hanno analizzato sia le metodologie con cui valutare le capacità di adattamento delle piante marine, sia le tecnologie con cui incrementare la loro plasticità.
Tra queste, oltre alla selezione dei genotipi più plastici e più resilienti e agli approcci basati sul Crispr e sull’editing genetico, sono state esaminate quelle incentrate sul cosiddetto hardening, che consistono nell’indurre risposte specifiche con cui creare una sorta di memoria e modificare la risposta a stress futuri.
In prospettiva, gli autori dello studio delineano la possibilità di un’evoluzione assistita, a livello di singoli individui e popolazioni, che dovrebbe incrementare la resilienza di queste preziosissime piante.
Il progetto IsoMed
È dedicato invece alla comprensione delle migrazioni degli organismi marini il progetto IsoMed. Guidato da Sara Magozzi, del Fano Marine Centre della Stazione Zoologica Anton Dohrn, è stato il primo progetto a essere selezionato e finanziato nell’ambito di una call internazionale bandita da Enel Foundation ed Extreme E, una gara per veicoli elettrici che attraversa paesi come l’Arabia Saudita e il Senegal che già subiscono gli impatti dei cambiamenti climatici.
La ricerca si svolgerà nel Mediterraneo, un’area in cui il riscaldamento globale, l’inquinamento, la pesca non sostenibile e le catture accidentali stanno decimando gli organismi marini.
Per capire quali saranno gli impatti futuri di questi fattori di stress e organizzare risposte efficaci, è necessario individuare le regioni in cui i pesci cacciano, si accoppiano e allevano la prole.
Uno dei metodi più efficaci per farlo si basa sugli isotopi chimici naturalmente presenti nel plancton, la moltitudine di organismi marini trasportati dalle correnti che sono alla base delle reti alimentari.
È infatti possibile misurare la concentrazione di questi isotopi nei tessuti animali e usarli come traccianti naturali con cui elaborare retrospettivamente degli isoscape, mappe che servono a ricostruire l’ecologia spaziale e i comportamenti migratori degli organismi marini.
Oltre a sviluppare modelli che verranno utilizzati per prevedere gli effetti della crisi climatica sui cicli biogeochimici marini e sulla struttura e stabilità degli ecosistemi, il progetto IsoMed valuterà la concentrazione di micro e macroplastiche nell’area sudorientale del bacino mediterraneo, per cui a oggi non sono disponibili misurazioni dirette.
Documentari sul mare, in tv con Netflix
L’interesse per le condizioni dei mari e degli organismi che li abitano sta fortunatamente travalicando l’ambito strettamente scientifico. Di recente, Netflix ha reso disponibile Seaspiracy, un documentario sugli impatti della pesca industriale e della contaminazione da plastiche girato da Ali Tabizi.
Al documentario, che secondo molti potrebbe riscuotere lo stesso successo di Cowspiracy, dedicato invece agli allevamenti intensivi, hanno contribuito nomi del calibro del giornalista George Monbiot, della biologa Sylvia Earle e di Cyrill Gutsch, il fondatore di Parley for the Oceans.
Parley, una delle organizzazione ambientaliste più impegnate nella tutela degli oceani, riunisce studiosi, artisti, istituzioni e comunità per dare risposte creative ai cambiamenti climatici e, soprattutto, alla diffusione delle reti da pesca abbandonate, che vengono recuperate e trasformate in nuovi materiali ecosostenibili.
Un’altra iniziativa dal basso è stata lanciata da Worldrise, una onlus che ha presentato Campagna 30X30, una petizione online per chiedere che almeno il 30% dei mari italiani venga dichiarato area marina protetta entro il 2030.
Secondo i proponenti, con quasi 8.000 chilometri di coste il nostro paese può diventare leader in Europa nell’azione per la tutela dei mari, e indicare un percorso che permetta di cogliere i vantaggi derivanti dall’istituzione delle aree marine protette.
Oltre a rafforzare la capacità dei mari di assorbire carbonio e contrastare i cambiamenti climatici, le Amp sono infatti fondamentali strumenti di tutela della biodiversità.
Secondo alcune stime, in queste aree la biomassa degli organismi marini cresce in media di quasi il 500%, e la riduzione di fattori di stress come la pesca, l’inquinamento acustico e la dispersione di sostanze tossiche consente alle popolazioni di pesci di ricostituirsi.
Un effetto fondamentale delle Amp è quello di permettere ai pesci di crescere di dimensioni, un fattore determinante nel numero di uova che un esemplare riesce a produrre: più un esemplare è grosso, e più uova produce.
Secondo gli studi più accreditati, i pesci tutelati sono in media un terzo più grandi di quelli che vivono fuori dalle Amp. Anche se sembra paradossale, questo genera benefici per la pesca e le attività economiche nelle aree limitrofe a quelle protette, in cui il numero di pesci aumenta grazie al cosiddetto spillover, lo spostamento delle specie da un’area protetta densamente popolata ad aree circostanti meno popolate, dove quindi c’è meno competizione per le risorse.
Oltre a questi benefici, nella maggioranza dei casi le Amp si sono rivelate degli ottimi investimenti: in quella di Port-Cros, un’isola francese nel Mediterraneo, ogni euro investito nella Amp genera un ritorno per la comunità locale 92 volte superiore.
Le azioni proposte dal Parlamento Europeo
Intanto, anche l’Unione Europea sta ponendo molta attenzione sul tema dell’inquinamento degli oceani. Tra i punti focali: l’aumento della raccolta, il riciclaggio e l’upcycling nel settore della pesca e dell’acquacoltura. E quindi eliminare il polistirolo espanso nei prodotti della pesca.
Allo studio un piano d’azione Ue per ridurre sostanzialmente l’uso della plastica e per affrontare l’inquinamento di fiumi, corsi d’acqua e coste, sottolineando come l’80% dei rifiuti marini arrivi via terra e che venga effettuata una maggiore ricerca sull’impatto dei rifiuti marini e della micro e nano plastica sulle risorse ittiche.
Solo l’1,5% degli attrezzi da pesca vengono riciclati in Ue e molti altri attrezzi sono abbandonati, persi, o buttati in mare, dove “rimangono intatti per mesi o addirittura anni“.
Queste cosiddette reti fantasma “hanno un impatto indiscriminato su tutta la fauna marina, compresi gli stock ittici“. Per affrontare questo problema i deputati del Parlamento europeo chiedono alla Commissione e ai Paesi UE di adottare le linee guida volontarie dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura per la marcatura degli attrezzi da pesca.
(testo redatto da Simone Gandelli)